In che modo il cammino è, o può diventare, un processo psicoterapeutico Cosa ci fa credere che possa indurre le persone a modificare i propri atteggiamenti rispetto alle relazioni con gli altri e verso se stesse Quali sono le condizioni perché questa liberazione da schemi stagnanti avvenga
Il contributo del corpo per il progredire nella consapevolezza di sé è della massima importanza. Si parte dal corpo come piccolo microcosmo e immagine dell’intero universo, forse a volte vissuto come un limite, un peso, una prigione, ma credo sia anche l’unico punto di partenza concreto della conoscenza. Unicamente attraverso il corpo abbiamo accesso alle leggi dello spirito, in quanto il corpo è il tempio dello spirito e la mente si purifica o si contamina, a partire dal corpo. Dal tempio della materia, nella sua naturale tendenza a sviluppare energia lavoro, nasce il dinamismo psicofisico che trasforma lo stato generale del soggetto. Egli dal corpo è contenuto e nel corpo contiene realizzazioni sempre più alte da raggiungere, ma si devono sacrificare le pesantezze attraverso la fatica fisica, la tenacia e la poesia percettiva. È così che il corpo diventa il campo della battaglia, il luogo del conflitto e poi della pace. Tutto ciò si chiama voglia di crescere, di evolvere.
La fatica partecipativa del corpo e il sacrificio contribuiscono enormemente alla creazione delle premesse del cambiamento o, per lo meno, a stimolare la vita psichica e tenere deste le passioni e le emozioni. Sta a noi viandanti regolare le emozioni e colorarle di un perfetto equilibrio tramite la meditazione in movimento, la contemplazione dello spazio naturale, quei piccoli gesti rituali, quasi liturgici, per la cura e l’alimentazione del corpo.
Quando il corpo è ritualizzato nei suoi gesti si trasmuta nel corpo dell’officiante, quel tramite con l’infinito spirito e l’anima del mondo. In questo stato di grazie siamo al di là del tempo e dello spazio, per cercare le cose che non sono contenute nello spazio e nel tempo, ma è la fonte di ogni spazio e ogni tempo.
Mi capita spesso di considerare l’esperienza di quei quaranta giorni e di quelle quaranta notti come il ritiro nel deserto da una vita quotidiana comoda e sicura. Nel deserto interiore, giorno dopo giorno, la porta si apre su scenari nuovi, si sprigionano talmente tanti stati d’animo da costringermi all’introspezione, se non ne fossi già avvezzo. Le reazioni alla fatica, ai polpacci infiammati, ai tendini doloranti e alle spalle indurite dal peso dello zaino, conducono dritto verso l’impressione della sfida, del resistere al dolore o nel cedergli.
Le reazioni alle angosce e alle loro vistose manifestazioni somatiche, all’ansia e alle ossessioni, sono tutte dettate dalle condizioni dell’uomo che attraversa il mondo, sì perché questa parte del pianeta terra che è la Cantabria, invece che la Galizia o l’Asturia non è altro che il mondo attraversato dall’uomo libero (il viandante). In esso, come sosteneva Kierkegaard, già nel 1844, l’angoscia ha come oggetto il nulla che rivela all’uomo di essere anima e corpo nello spirito. E quindi, se l’angoscia può essere occasione di caduta e di perdizione, può anche e deve essere, una tappa per incamminarsi verso il bene e la salvezza. (vedi: Sören Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, ed. SE, 2007)
Allontanandosi da casa, dalle sicurezze, non rimane al viandante nessun riferimento quotidiano e quindi è l’angoscia a svelargli il “niente”. Il filosofo direbbe che nel dileguarsi del niente, rimane soltanto il “nessuno”.
Ecco che il segnale dell’angoscia ci rivela chi siamo, nelle nostre nudità e nelle nostre genuinità, e poi anche nei nostri desideri, nella libido e nella compassione. La condizione del pellegrino è talmente dilatata nel tempo che è quasi impossibile astenersi dallo sviluppare diverse riflessioni su se stessi in rapporto alle questioni vitali. Innanzitutto il rapporto con il cibo e la relativa pulsione della fame. Nel quotidiano modo di nutrirsi, noi che viviamo in paesi pieni di supermarket dove troviamo qualunque cibo desiderato, non siamo più abituati alla fatica di procurarci di che nutrirci, mentre sul cammino ti devi organizzare il rifornimento altrimenti potresti rimanere qualche mezza giornata senza la possibilità di nutrirti. Certo di fame non muori, ma l’angoscia di non trovare nutrimento è un fastidio reale per il viandante. Ciò vale anche per la questione fatica-riposo, osservare-pensare, comunicare-non comunicare e quindi, nel silenzio e nella solitudine permettere alle questioni e alle ansie di emergere, invaderci, e poi scaricarsi sul sentiero per maturare una nuova conversione dentro di noi. Capita sempre che, nel tempo del rientro a casa, questa introspezione si applichi naturalmente alle relazioni quotidiane in forma di consapevolezza, scevra quindi da meccanismi automatici di rimozione. Credo che accettare e lasciar fluire le angosce e ogni sorta di stati d’animo sul cammino, è la condizione indispensabile al cambiamento successivo. Umiltà verso se stessi e perdono, sono le prospettive archetipe indispensabili, diciamo l’humus di fondo, il terreno su cui far germogliare la nuova vita che si desidera, forse anche inconsciamente, quando si parte per Santiago de Compostela. Se si aggiunge l’atteggiamento di umiltà e di perdono che alcuni pellegrini si assumono, unitamente al fatto che, per tutti, le emozioni ci rendono simili nella forza e nelle debolezze (sul cammino si è tutti veramente uguali proprio perché si è nelle stesse condizioni materiali), si ha la sensazione di una nuova dimensione del tempo rispetto al misticismo filosofico. Come sostiene Pierre Hadot riflettendo sul pensiero di Wittgenstein: “Se per eternità non si intende infinita durata nel tempo, ma intemporaneità, vive eterno colui che vive nel presente. La nostra vita è così senza fine, come il nostro campo visivo è senza limiti”.
In qualche modo è vero che sul cammino, come in ogni esperienza mistica profonda, si assapora la vita eterna, aiutati dal tema archetipo di fondo, quello della morte intesa come dimensione temporale dell’uomo. Del resto è anche vero che “la morte non è evento della vita, la morte non si vive” (ibidem). La condizione diviene quella di un tempo talmente dilatato da sembrare atemporale e sempre presente dove anche la possibilità della morte sembra una presenza serena. La consapevolezza della libertà nasce proprio da questo stato di serena esistenza.
Walter Orioli