di Walter Orioli
Cosi recita il mio koan, la poesia zen dell’impermanenza, termine sanscrito che nella dottrina buddista indica il cambiamento comprensibile nel divenire della meditazione. Infatti nella meditazione zen, che consiste proprio nel camminare lentamente con consapevolezza, si percepisce la mutabilità delle cose, l’inconsistenza (priva di sostanza) ed anche l’assenza di un io razionale. Buddha disse che il meditatore non fa altro che soffermarsi ad osservare il fenomeno del sorgere e del passare; come se dovessimo imparare a vedere la realtà sottile di noi stessi, dell’io di cui siamo così intrinsecamente infatuati. Ma ciò che chiamiamo “io” è un fenomeno in flusso costante, in continuo cambiamento. È così che attraverso questa esperienza di impermanenza possiamo facilmente uscire dall’egoismo e quindi dalla dinamica della sofferenza, perché ciò che è senza sostanza non è neppure “mio”, non è “io”, non è “me stesso”.
L’applicazione della filosofia zen durante il cammino mi è stata molto utile per mantenere la consapevolezza del corpo, per essere presente: al peso del tronco sui piedi, al passaggio del peso dal piede sinistro a quello destro, al mantenimento della colonna perfettamente verticale nonostante il peso dello zaino sulla schiena, al respiro nelle sue due fasi, allo sguardo tendenzialmente neutro, al ritmo cardiaco. Per molti tratti ho realizzato la camminata zen ed è stata un ottimo modo di meditare. Ritengo questa modalità un ottimo esercizio di spontaneità pre-espressiva. È nel vuoto che si può assumere il ruolo del testimone, di colui che si percepisce mentre cammina, un magistrale esercizio di consapevolezza e beatitudine.
Tornando con i piedi per terra, devo dire che la fatica fisica gioca un ruolo importante nelle dinamiche del pellegrino, sia se il sentiero lo si fa a piedi sia se lo si percorre in bicicletta; far fatica aiuta tantissimo a liberarsi dai propri schemi consolidati negli anni, dalle sicurezze, dalle resistente e dalle reticenze; la fatica ti manda in corto circuito azzerando ogni preconcetto, ti scava dentro fino alle ossa, all’essenza di te stesso.
Anche la fatica psicologica di non avere a portata di mano tutte le sicurezze di un tetto dove ripararsi, un giaciglio per riposarsi, un luogo dove rifornirsi di cibo, una fonte dove attingere dell’acqua, una persona con la quale parlare, un medico nel caso di un malessere, tutto questo gioca un ruolo fondamentale per rivelarti la tue paure.
C’è anche un’altra fatica, quella di essere libero, di doverti gestire il tempo e la libertà antropologica di trovarti in mezzo al mondo, di attraversarlo come molti altri prima di te. La libertà da ogni legame pregiudiziale, come un’opportunità dell’essere solo con se stesso, ma anche unito a ogni altro essere umano, animale, vegetale e minerale. Libertà che è lo spazio vuoto dove incontrare la pluralità. Si sa che perdere libera. Che poi è come dire: Beati i poveri di spirito! Il pellegrino è a tutti gli effetti un povero di spirito che scopre la bellezza della povertà.
Gandhi camminava veloce nelle sue marce per la pace, molti pellegrini camminano velocemente, altri lentamente, non credo ci sia un modo “giusto” di fare il sentiero, ognuno possiede il proprio ritmo, stabilisce il tempo e le distanze che vuole percorrere in un giorno, in una settimana, in un mese. Ogni persona è unica anche nel ritmo di spostamento. L’importante è rispettare le proprie capacità, le proprie energie fisiche e psicologiche, la propria indole. Trovare il proprio ritmo naturale, né romantico, né sognatore, né atletico, ma un modo organico al di là delle false convinzioni naturalistiche, romantiche o atletiche. Il modo organico di spostarsi, di deambulare, di osservare il paesaggio, di comunicare con chi incontri, è quella modalità che ti fa evitare l’errore di confondere l’ideale con il naturale.
Il cammino di Santiago non è il giardino dell’Eden e noi non siamo monaci dediti da tempo al sacrificio, alla preghiera e alla rinuncia. Noi pellegrini per una settimana o per un mese, siamo nel mondo e veniamo dal mondo vincolati alle vicissitudini del tempo, dei legami affettivi e tutto il resto.
Tuttavia la camminata zen del percepire il peso del corpo sui piedi e il passaggio del peso dal piede sinistro a quello destro mantenendo lo sguardo davanti a se svuotando la mente, mi appare un buon punto di riferimento per educare il viandante a una modalità di presenza verso se stesso e il proprio corpo che a lungo andare diventa naturale e spontaneo.