I miei 5 anni a filmare i viaggi di Paolo Rumiz | Alessandro Scillitani

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I miei 5 anni a filmare i viaggi di Paolo Rumiz | Alessandro Scillitani

Un uomo grande e grosso, dalle spalle larghe, le gambe possenti e la barba sempre più bianca a incorniciare un viso rassicurante. Già, perché Alessandro Scillitani è un concentrato di gentilezza. Te ne accorgi dalla sensibilità delle inquadrature con la macchina da presa, dalla composizione delle colonne sonore dei dvd, dalla musicalità del montaggio delle scene, dalla leggerezza dei suoi strumenti di lavoro, dalla discrezione della sua presenza nei viaggi. O più semplicemente dal modo di parlare. Se Paolo Rumiz è il cuore e il racconto per parole dei viaggi, Alessandro Scillitani ne è lo sguardo da consegnare alla memoria. Regista e autore, affianca da cinque anni lo scrittore e giornalista triestino. Con lui ha tra l’altro realizzato Le dimore del vento alla ricerca di città morte, fabbriche dismesse e miniere abbandonate; Il risveglio del fiume segreto, dedicato al fiume Po dalla sorgente in Piemonte al delta nel mar Adriatico fino alla Croazia; L’Albero tra le Trincee sul fronte italo-austriaco della prima guerra mondiale da cui è poi seguita una serie di dieci documentari sulla Grande Guerra; L’Ultimo Faro sul viaggio immobile su un’isola disabilitata in cui un faro ha fatto da casa. Da poche settimane è tornato a casa dopo aver percorso il Cammino dell’Appia antica: 611 chilometri da Roma a Brindisi.

Allora Alessandro, è stata davvero una “fatica tremenda” come vi avevano avvertiti alla vigilia della partenza?
«È stata un’esperienza magnifica. Tuttavia, almeno per me, l’inizio è stato segnato da tensione e preoccupazione. Temevo di non reggere il passo per 600 chilometri: non avevo mai fatto un’esperienza di questo tipo e lo stesso Paolo mi aveva suggerito di tenere un’auto a portata di mano. Tuttavia ero memore del viaggio lungo il Po e delle canoe prestate: la loro gestione si era rivelata una gran fatica che spezzava il senso del viaggio. Non mi andava di fare il riposato che si presentava con il cavalletto per girare le riprese. E gli incontri? Le relazioni con il gruppo? La fatica c’è stata, soprattutto nei tratti in cui l’Appia, come racconta Paolo, si faceva Fata Morgana sparendo sotto i nostri piedi, ma la meraviglia è stata maggiore. Mai come con la Via Appia ho sentito la forza del racconto, non solo di una strada, ma di tutto il Sud. Dal punto di vista filmico è diventata una persona».

Qual è il tuo equipaggiamento da viaggio?
«Per desiderio e stile di narrazione privilegio la leggerezza. Sono innamorato della fiction, certo, ma in casi come questi non c’è un copione scritto: è nel cammino che si costruisce la storia per cui è fondamentale concedere alle persone la libertà di esprimersi in movimento. Devi essere pronto a catturare l’attimo reale. Io mi sono nascosto cercando di diventare il più piccolo possibile. Dal punto di vista tecnico utilizzo le mirrorless che assicurano riprese straordinarie e raccolgono direttamente l’audio».

In che modo si svolgono le riprese? La cosiddetta sacralità del cammino viene interrotta dalla richiesta di inquadrature specifiche?
«Ho cercato di ridurre al minimo le richieste perché mi rendo conto della peculiarità del cammino. Certo, ci sono dei casi in cui la messa in posa è indispensabile per non perdere il significato del racconto, ma tutto è stato molto naturale. Come direbbe Wim Wenders, la contaminazione è inevitabile».

Perché il gruppo dei viandanti è molte volte ritratto di spalle?
«Si tratta di una scelta voluta poiché questo genere di riprese dà l’idea che stai camminando con lui».

Come sono andate le cose nel viaggio immobile?
«Questo è un caso particolare perché non sono stato io l’autore delle riprese. Paolo è andato lì veramente da solo e io ho dato solo indicazioni sulle riprese e lavorato sul montaggio sulla base di una trama realizzata da lui. Quando è tornato e mi ha fatto vedere il lavoro, sono rimasto folgorato per la grandezza, la sensibilità e la capacità di sguardo dimostrate».

Rumiz non ha mai rivelato la località del faro. Ce la vuoi svelare adesso a distanza di un anno?
«Non posso: mi picchierebbe (ride, nda). Dovrei chiedere il permesso».

In che modo queste esperienze di viaggio stanno cambiando il tuo sguardo di regista?
«Nel superamento delle abitudini e delle situazioni quotidiane. Il mondo mi sembra più vicino».

Qual è il comune denominatore tra te e Paolo Rumiz?
«La ricerca di racconti autentici e dal basso e la volontà di scoprire qualcosa da valorizzare che non si trova sotto la luce dei riflettori. Ci sono migliaia di persone con uno scrigno di storie da raccontare. Nel corso di un viaggio capitano preziosi incontri e infinite coincidenze e tutto sembra architettarsi in modo spontaneo per la realizzazione del tuo disegno iniziale».

In che modo sei finito dentro questi viaggi? Com’è nata la collaborazione con Rumiz?
«Nel 2010 ho realizzato un film sulle case abbandonate, un elemento che mi è molto caro sin da bambino. Nell’evocare le storie e le famiglie che vi avevano abitato, ho intervistato tra gli altri Tonino Guerra, amante anche lui dei luoghi disabitati, Pupi Avati, che vi ha ambientato molte scene di alcuni film, e mi è stato suggerito di contattare Paolo Rumiz. Da lì ho scoperto la nostra comune attrazione che è stata poi approfondita con Le dimore del vento».

Come nascono questi grandi viaggi?
«Le idee sono di Paolo e le sue proposte sono in sintonia con i miei interessi. Lavorare sulla grande guerra con Paolo Rumiz è stata un’esperienza straordinaria che da solo non avrei mai affrontato. D’altronde vengo dall’Emilia, una terra la cui memoria è quella partigiana della seconda guerra mondiale. Tuttavia mi sono accorto di come la storia, la difficoltà di raccontare la verità dei fatti, le assurdità delle guerre e dei ragazzi in lotta solo perché indossano divise di colore diverso, sono comuni. Devo molto a Paolo sia per il coinvolgimento e sia perché da triestino mi ha dato una chiave di lettura che non è né dei vincitori e né dei vinti».

Nel viaggio lungo la Via Appia antica ha partecipato anche Riccardo Carnovalini, camminatore di professione: ti ha sorpreso?
«Sì perché è molto esperto e sa bene quello che dice, soprattutto sul valore del camminare. Ho potuto toccare con mano e con i piedi la corrispondenza reale con le sue parole. Ha tracciato la linea della Via Appia antica intersecando dati delle mappe degli anni ’50 con le informazioni scritte sui libri e la viabilità attuale. Il lavoro svolto è stato immenso e prezioso, anche per chi percorrerà la strada dopo di noi. Noi lo abbiamo seguito in modo religioso».

Sei anche un musicista: è una passione che stai ancora coltivando?
«Proprio questa sera terrò un concerto. La mia estrazione è musicale ed è molto importante nel lavoro che svolgo. Nel montaggio di un film è fondamentale la musicalità nel taglio delle scene e nel senso del ritmo».

Possiamo dire che sei diventato un camminatore grazie ai viaggi con Rumiz?
«Certo, tornato dall’ultimo viaggio sono ora più abituato a camminare e a percorrere maggiori distanze. Anche se non a livello di Riccardo Carnovalini».

 

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RIFERIMENTI:

Il Cammino dell’Appia Antica


Tra Terra e Cielo
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