Quando Andrea ci racconta che per andare nel deserto del Sahara «bisogna guardare con attenzione», si rimane interdetti. Oasi dell’anima, certo, ma cosa cercare in oceano di sabbia? Evidentemente c’è qualcosa che ci sfugge. Cosa c’è di così imperdibile in un viaggio di sette o più giorni in cui le persone incontrate sono poche, pochissime?
A dorso di cammello, si è affidata a un gruppo organizzato per andare tra le dune del Marocco meridionale insieme ai berberi. E «per scoprire i tanti piccoli segreti del paesaggio», aggiunge con una punta di fierezza. Dopo essere atterrata a Ouarzazate, ha raggiunto il deserto: «Ci vuole un giorno. Il viaggio può sembrare faticoso, ma è un bene avere un interstizio tra la civiltà e il nulla. La prima notte abbiamo dormito su un morbido letto di una camera d’albergo con l’aria condizionata, il giorno dopo siamo stati sui cammelli con il vento carico di sabbia che ci soffiava nelle orecchie».
Lì è stata accolta dai tanti piccoli segreti del paesaggio. Come il sole della sera che tinge il deserto di un rosso sempre più intenso e il cielo che diventa sempre più blu. Come il cuoco berbero che accende la lampada a gas nel tendone della cucina mentre si resta in silenzio a osservare la sua silhouette e quella degli aiutanti che affettano la verdura e l’insalata. Come il maestro del tè che versa tre volte l’acqua bollente e distribuisce noci e uva passa. Come lo scricchiolio tra i denti quando si mastica. Come i cammelli che durante la notte bramiscono dietro la duna mentre fuori c’è il silenzio, quello vero. E se si guarda in alto si scorgono i satelliti che attraversano il cielo stellato nel buio della notte, quello vero. «Bisogna guardare con attenzione», ripete Andrea.
Di notte non c’è bisogno delle lampade: «Il terreno sabbioso riflette la luce della luna e permette di vedere ogni singolo sassolino». Se solo facesse un po’ più caldo: «Bisogna coprirsi per bene perché la temperatura scende quasi fino allo zero e al mattino i cespugli sono coperti di brina». E poi non è vero che il deserto è tutto uguale. Andrea ricorda «i cespugli di rucola che si susseguono a perdita d’occhio, il letto asciutto del Draa, i piccoli fiori che fanno capolino dalle crepe del terreno, il sottosuolo che trasuda sale, i cespugli enormi e antichissimi sprofondati nella sabbia che si accumula sul terreno trascinata dal vento».
I berberi si muovono in queste terre da millenni allevando cammelli e capre. E in alcuni casi hanno costruito anche degli insediamenti. Una delle città berbere più antiche, Aït Ben Haddou, sorge ai piedi dell’Alto Atlante, una trentina di chilometri prima di Ouarzazate, lungo la vecchia rotta carovaniera che porta a Marrakech. «Se il nome di una città comincia per “Aït” – racconta – significa che è stata fondata dai berberi».
Ci sono due piccoli e semplici consigli da ricordare nel deserto. Il primo è che è «meglio non far cadere niente a terra, soprattutto di notte, perché la sabbia inghiotte qualsiasi cosa». La seconda è di scegliere con attenzione la calzatura più adatta: «Con gli scarponi da montagna mi sono affannata sulle dune come nella neve alta, mentre i berberi avanzano tranquillamente nei loro sandali di cuoio».
Come una liturgia che si ripete ma non stanca, ogni viaggio nel deserto si conclude a Marrakech per un’ultima serata nella città. Qui le vie dei mercati sono le tipiche vie dei suk delle città arabe. Lo stesso incessante mormorio, le stesse bottegucce poste l’una di fianco all’altra, lo stesso odore di cibo cotto e di spezie, lo stesso lento procedere dei compratori e dei curiosi che faticano a farsi largo. Ogni strada e ogni vicolo ha la sua specialità e raduna la gente di un solo mestiere: qui i tessitori mentre dal retrobottega si scorgono le spole correre sul telaio, là i ciabattini che battono i loro piedi sul ferro, più lontano i sellai che fanno andare la lesina e i falegnami che torniscono i piedi degli sgabelli.
Dopo giorni passati nel Sahara, il rientro a casa o nella hall dell’albergo, per chi preferisce un atterraggio morbido sul mondo occidentale, si avverte una sensazione comune: sembra di essere in un altro pianeta. «La vita del deserto non è affatto male», conclude, con un sorriso. Anche solo «per la colazione con pane arabo e marmellata d’arance da consumare su una duna tutta per noi».
A proposito, un libro da leggere prima di mettersi in viaggio? “Ribelli del deserto. Vita sociale e politica dei berberi”, di Robert Montagne. In un centinaio di pagine, l’autore disegna una traccia della vita del Marocco, cogliendo gli aspetti più profondi di un’esistenza interiore che non emerge dai testi degli storici arabi: uno spirito conservatore, legato a riti e simboli.
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RIFERIMENTI:
Capodanno 2017 nel deserto del Marocco