Ci sono due modi per capire chi è Sergio Berardo, leader della band di musica popolare occitana Lou Dalfin. Il primo è partecipare a un concerto. L’energia e la genuinità trasmesse danno il senso dell’appartenenza disincantata. Il secondo è guardarlo insegnare, a grandi e piccoli, il valore della musica. Decine e decine di persone seguono i movimenti del suo corpo, abbeverano la propria mente con il suo gusto per la narrazione e allenano le proprie dita con i suoi consigli musicali sul modo di suonare la ghironda, l’organetto, la cornamusa e gli strumenti a plettro. Ecco perché solo con un po’ difficoltà e di dispiacere riusciamo a sottrarlo per qualche minuto ai suoi discenti per farci rilasciare questa intervista.
Sergio, nel 2006 siamo stati con un gruppo di camminatori nella chiesa di San Salvatore a Macra per assistere a un concerto di fiati antichi. Al termine dell’esibizione hai lanciato l’idea di ricostruire la Cornamusa dell’affresco di San Peyre. Missione compiuta?
«Sì, è stata ricostruita. Si tratta solo di una delle varie iniziative portate avanti in questi anni. Dici cornamusa e non puoi non pensare alla ricchezza di strumenti, melodie e danze della musica d’Oc. C’è una varietà che molto spesso non viene notata. Ci sono realtà musicali come quelle irlandesi, famose e apprezzate, e altre, come quelle occitane, altrettanto valide ma meno conosciute».
Riesci a sintetizzare in poche parole cosa vuol dire appartenere alla cultura occitana?
«Beh, per la maggior parte delle personeche vivono al di fuori di questi confini, Occitania è un ricordo ginnasiale. In realtà, anche dopo il Medioevo, gli occitani hanno continuato a mantenere una propria identità culturale. Ebbene, appartenere alla cultura occitana significa vivere queste tradizioni, parlare questa lingua ed esserne orgogliosi. Certo, ci sono tante diversità musicali, gastronomiche e artistiche all’interno di questa realtà, fra zone interne e costiere, grandi e piccoli centri, ma questa è una cultura che ha ancora molto da dare».
Anni fa, nel 2002, abbiamo assistito a un tuo concerto all’Auditorium Flog a Firenze. Tra un pezzo e l’altro ti sei spesso rivolto al pubblico più giovane delle tue valli. Come è cambiato negli ultimi vent’anni il rapporto che hanno con la loro terra d’origine? Vogliono ancora andare via?
«Sono andati via quasi tutti. Ci sono molti territori spopolati poiché in tanti hanno preferito l’economia dinamica, come quella della pianura piemontese, a una società più arcaica. Tuttavia, alcuni fattori, come la musica, hanno contribuito a creare identità. Essere occitani, a differenza del passato, è diventato un motivo di orgoglio. Sotto questo punto di vista, Lou Dalfin ha realizzato una piccola rivoluzione copernicana: ha fatto vedere l’Occitania da un altro punto di vista».
Tra le tue attività c’è anche l’insegnamento dell’uso degli strumenti tradizionali ai bambini: il progetto va avanti? Ci sono difficoltà per ottenere finanziamenti? Possiamo dire che tutti i ragazzi che ora suonano la ghironda in un gruppo di musica occitana hanno iniziato con te?
«Rispondo subito all’ultima domanda: sì. Chi non ha iniziato direttamente con me, lo ha fatto con qualche amico o collaboratore. In merito ai finanziamenti, devo rivelare che i miei corsi di musica non sono mai stati aiutati. Tuttavia penso che la cultura popolare possa rimanere estranea ai fondi pubblici e vivere con le proprie forze. Certo, i soldi potrebbero aiutare, ma non sono indispensabili e anzi, è meglio che se li tengano. Non credo molto in questa modalità di promuovere la musica. Ho visto molto spesso buttare via migliaia di euro per papponi che hanno poco a che vedere con la musica genuina. Infine, sì, insegno ancora strumenti tradizionali ai bambini».
Il disco che ci ha fatto conoscere Lou Dalfin era Materiale Resistente del 1995, in cui tra gli altri c’erano i Marlene Kuntz, i CSI e altri 18 gruppi cult come il vostro. Ai giorni d’oggi che significato riveste la parola resistenza?
«Da queste parti la lotta partigiana è stata leggendaria e il contributo è stato diretto. Tante volte mi sembra di notare posizioni ultra e quasi folcloristiche. Credo comunque che sia il caso di rimanere attenti e ancorati ai valori dell’antifascismo».
La Val Maira è l’esempio di un modello di offerta turistica invidiabile per quantità e qualità dei servizi offerti ai camminatori, ma non si fa mancare poca collaborazione, invidie e gelosie. Qual è secondo te la strada per superare tutto questo?
«Credo che si tratti di comportamenti comuni a tutti i posti di montagna. E’ un po’ triste da dire, ma sono atteggiamenti diffusi ovunque. Personalmente credo nei valori dell’Occitania conservati e tramandati fino a questi giorni, magari reinventati, e non potrei vivere in un altro posto. Più in generale, viste le difficoltà a vivere nelle grandi città, potrebbe essere saggio un ritorno in montagna».
Sei stato un precursore nel campo della musica avendo abbinato la ricerca delle sonorità tradizionali a quelle più rock. Pensi che ci sia ancora qualcosa da dire e da esplorare?
«Senza dubbio sì perché fa parte della musica popolare. Si tratta di un fatto naturale: connubi ed esplorazioni sono fonti di vitalità. La musica deve prendere dal proprio tempo, altrimenti diventa archeologia, e deve essere a disposizione di tutta la comunità».
Quali sono i temi affrontanti nel tuo ultimo disco?
«E’ una commemorazione degli 800 anni della battaglia del 1213 di Muret, località non lontana da Tolosa, su cui noi riponiamo un fondamento dell’identità occitana, un po’ come i Serbi con la loro battaglia persa contro i Turchi».
Sergio, sei un camminatore?
«Sì, anche se quasi sempre sugli stessi sentieri».
Maurizio Barbagallo
Fabio Lepre