Sbatte i pugni sul tavolo e scuote la testa: «La realtà non te la raccontano». Barka Kati, libico di Tripoli, invita ad andare al di là dei titoli dei giornali sull’ecatombe al Canale di Sicilia. C’è una verità che riferisce di quasi mille migranti per cui la morte in mare è arrivata a tradimento. L’ultimo dei tradimenti dopo quelli subiti da trafficanti, truffatori e guerriglieri barbuti con la cartucciera a tracolla. E poi c’è la verità di chi, come lui, conosce bene quella gente, quei posti e quelle coste della Libia da cui sono partiti. «C’è sempre qualcosa che non è vero. Ci sono cose che da qui è impossibile vedere», sussurra ripetutamente Barka, altezza da cestista, grandi mani rassicuranti e occhi color pece. Finché poi si apre: «C’è qualcuno che sta usando questa gente per scopi politici, sia in Italia sia in Libia. Questo flusso ininterrotto di migranti non è normale. Mi spieghi come sia possibile attraversare la Libia proprio in questo periodo? Come fanno centinaia di persone dal Niger, dalla Nigeria, dall’Etiopia ad arrivare fino alla costa? Con tutta la tecnologia a terra con cui i militari riescono a rintracciare anche una singola persona, come fanno a non vedere lo spostamento di questi grandi gruppi e un barcone che parte?». Gli occhi, insomma, sarebbero lasciati socchiusi, sia da una parte sia dall’altra del Canale. «Qualcuno ha bisogno di visibilità, di un’emergenza da cavalcare politicamente».
Se ci fosse un reale interesse a risolvere la situazione – ragiona Barka in un ottimo italiano imparato negli anni di studio a Siena – «bisognerebbe andare nei paesi dei migranti per incoraggiare una pace vera e non basata sugli interessi. Se i grandi Paesi continuano a vendere armi e a sfruttare i giacimenti di petrolio e gas naturale per il proprio tornaconto, è ovvio che la gente parte. Credo che se le condizioni cambiassero, anche chi è andato via penserebbe di tornare».
Poi ci sono le tragedie di cui non parla nessuno. O perché si sono concluse con l’affondamento del barcone prima dell’approdo sulla terra promessa o perché i migranti sono partiti dalle coste di paesi in cui «non ci sono interessi in gioco». Barka ha conosciuto il dolore. Lo ha visto negli occhi di un uomo del Sudan che chiedeva notizie sui due fratelli partiti ad agosto dello scorso anno per un altro viaggio della speranza. Il barcone è stato inghiottito dal mare e a lui è toccato il compito di rivelarglielo.
Com’è vista l’Italia dalla Libia? Barka se la cava con una battuta: «Da noi in Libia ci sono i nobili della tribù e ora l’Italia sta facendo la nobile dell’Europa». Ma, aggiunge, «i siciliani sono un grande esempio: con tutto il casino che è arrivato non si sono mai lamentati. Hanno orgoglio e condividono con chi ne ha bisogno anche un semplice pezzo di pane».
In questo contesto, la Libia è una terra di passaggio. «Vado spesso a Tripoli e i guai ci sono solo se te li vai a cercare». Oggi la Libia ha due governi e due parlamenti. Il primo ministro riconosciuto dalla comunità internazionale è Abdullah al Thinni, che ha vinto le elezioni nel 2014 e ha spostato la sede del governo e dell’assemblea costituente ad Al Bayda, e il parlamento a Tobruk, nell’est del paese. A Tripoli, invece, si riunisce ancora il precedente parlamento, in cui c’è una forte presenza di Fratelli musulmani e che è appoggiato dai miliziani islamici della coalizione Alba libica.
Per ora non è ancora tempo di accogliere i viaggiatori fra le dune di sabbia e le antiche vestigia romane. Già, perché Barka è una guida che accompagna la gente nel deserto del Sahara. Lo ha fatto per alcuni anni con Le Vie dei Canti proponendo un percorso nella parte più orientale e meno conosciuta dell’altopiano che si estende fra Libia e Algeria. E poi è stato uno dei responsabili della vacanza mare di Tra Terra e Cielo nella Maremma toscana. L’esperienza è stata speciale «soprattutto per uno come me che proviene da una cultura diversa». Lo è stata a tal punto che la scorsa estate ha partecipato come ospite per tre settimane e ha promesso di farlo di nuovo anche in questo 2015.