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16/11/2011
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25/11/2011

Pellegrino a Santiago de Compostela – Parte II

di Walter Orioli

È noto che ogni anno d’estate migliaia e migliaia di giovani e meno giovani si confrontano con l’esperienza del camminare a piedi o, spingendo sui pedali di una bicicletta, su strade sterrate e boscose, frequentando i sentieri dell’antico pellegrinaggio di Santiago di Compostela. Io sono uno di quella corrente variopinta, di un flusso inarrestabile che percorre contemporaneamente le coste nord, il sentiero più interno della Spagna e il sentiero portoghese. Siamo gente pacifica, intellettuali, religiosi, boyscout, pensionati, studenti, uomini e donne anziani, giovani, quarantenni di diverse nazionalità, anche se la maggior parte sono europei, per lo più laici che conducono una personalissima ricerca spirituale. Insomma questi tracciati antichi dei culti solari precristiani, sono nati sul percorso sacro dei druidi celtici che seguivano la linea del sole, da est a ovest fino “alla fine del mondo” dove l’astro tramonta nell’oceano Atlantico e la Via Lattea svanisce nell’infinito. Un luogo mitico e simbolico che aveva sulle rocce del Cabo de Finisterre la sua parte più significativa. Colpisce come questo tracciato sia stato percorso da milioni di persone prima di noi, di confessioni diverse, ma con la fede in quel misterioso rapporto con l’anima che è dato dal camminare contemplativo.
La meta rimane comunque l’acciottolato di Praza do Obradoiro al cospetto della grande cattedrale a due campanili che si erge sulla collina dove, nel 700, fu rinvenuto il corpo di San Giacomo, l’apostolo di Gesù. La Cattedrale fu distrutta nei conflitti anti-islamici del 997 ad opera di al-Mansur (che risparmiò solo la tomba di San Giacomo) poi ricostruita più grande come la vediamo ancor oggi. Un luogo dove ogni pellegrino compie tutto il rituale, compresa la preghiera presso la tomba dell’apostolo Giacomo e l’abbraccio alla statua, salvo poi scoprire che la meta non è mai un luogo, piuttosto un nuovo modo di vedere le cose.
Per i non credenti il cammino è un atto di svuotamento per mettersi a disposizione delle forze della natura, mentre per i credenti è un atto di abbandono per mettersi a disposizione del divino, ma il risultato non cambia, serve a valorizzare la nostra vita, ad avere fiducia nelle nostre capacità e, a lungo andare, innescare dei cambiamenti sostanziali nei comportamenti.

L’inizio di un’esperienza così profonda come il cammino di Santiago segna, per alcuni pellegrini, un punto di non ritorno. Questi viandanti solitamente sono già preparati al cambiamento. Quasi sempre, quando si parte per il cammino si è nel mezzo di qualche crisi o di qualche ricerca. Alla ricerca di che cosa non si sa bene, si percepisce solo un piccolo o grande malessere, dell’angoscia, oppure un’impotenza a risolvere qualche situazione personale, o un legame affettivo che ci sta stretto, o una depressione strisciante che dura da troppo tempo.
Ma quando si parte, si parte e basta. Solitamente accade che si intraprenda il cammino sulla spinta di un amico che l’ha già fatto o di qualcuno che te ne parla con entusiasmo, o di qualcuno che conosci e vuole farlo con te: ti ha scelto come compagno.
Abitualmente si attende a lungo il momento giusto per partire, si matura la decisione giorno per giorno, si inizia mesi prima a selezionare le cose da mettere nello zaino: due magliette, due paia di mutande, una canottiera, una felpa, un pantalone lungo leggero e uno corto, un cappello, due paia di calze corte, i sandali, le ciabatte, il dormi bene, un lenzuolo, la fodera per il cuscino, un sacco a pelo leggero, se si decide di dormire all’aperto, un libro, un quaderno, una biro, una matita e cosa non mettere: gli scarponi, il maglione, altri indumenti. Che farmaci portare: creme grasse per i piedi, granuli omeopatici di arnica in monodosi, cerotti di ogni genere, aspirina o tachipirina.
E poi si parte semplicemente per essere presenti a se stessi, per svuotare la mente dalle preoccupazioni, per sentirsi carne e spirito, per assaporare le giornate, la qualità del tempo, dei luoghi. Si parte con la speranza di incontrare volti nuovi, voci propiziatorie, paesaggi che sono anche dell’anima. Si parte per fare vuoto nel proprio cuore, per perdere tutti i punti di riferimento, per abbandonare i binari, per lasciare qualche abitudine e per allacciare qualche legame con l’infinita libertà. Nella consuetudine del vuoto, non ci sono distrazioni, solo consapevolezza, la chiara e semplice consapevolezza di coscienza che ti fa aprire il cuore, che ti fa specchiare per vedere te stesso, come in questo segno zen. (2/continua)

Leggi la prima parte del racconto

Tra Terra e Cielo
Tra Terra e Cielo
Abbiamo la convinzione che il cambiamento del pianeta nasca all’interno di ognuno di noi, dall’attenzione che poniamo al cibo che scegliamo, dalla qualità delle relazioni che intratteniamo con il mondo esterno e con noi stessi/e, dal tipo di benessere che ci doniamo.

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